Asilo, neve e amore sono i pilastri che hanno reso la mia infanzia serena e avventurosa, un intreccio di piccole grandi imprese quotidiane. Camminavo attraverso colline innevate, esploravo la valle con occhi pieni di stupore, sentendo il mondo come un luogo vasto e magico, pronto per essere scoperto. Immaginate un bambino di quasi quattro anni che, nonostante il clima rigido, percorreva più di un chilometro di strada per raggiungere l’asilo, attraversando “la valle” in solitudine. Gli inverni erano duri, con nevicate che duravano mesi e temperature che spesso scendevano sotto i trenta gradi sottozero. Tuttavia, in quella distesa bianca, c’era un calore che non si poteva misurare: l’amore dei miei genitori, la strada verso l’asilo, la neve e le piccole cose semplici che mi regalavano gioia e mi aprivano le porte del mondo.
Il viaggio verso la scuola materna
Prima di cominciare il percorso scolastico, ho frequentato per tre anni la scuola materna. Avevo poco più di tre anni e mezzo e, tranne i primi mesi in cui mia madre mi accompagnava lungo il tragitto, mi spingevo da solo fino al ruscello che dovevo attraversare. Mia madre scendeva con me fino al punto in cui dovevo oltrepassare il ponte. Poi mi osservava mentre attraversavo, mi salutava con un sorriso e con il gesto della mano. Io proseguivo lungo la strada, quasi sempre da solo o insieme agli altri bambini diretti alla stessa scuola.
Il ricordo di mia madre, adorata e sorridente, che mi incoraggiava e mi seguiva con lo sguardo fin quando non mi perdeva di vista tra le case, è ancora vivido e mi commuove profondamente, anche dopo sessant’anni. La vedo mentre torna verso la collina, verso casa, perché doveva andare al lavoro; lavorava duramente, facendo i turni, anche quelli più pesanti. Andavamo sempre a piedi, ovunque, d’estate sotto il sole cocente come nei rigidi inverni che da noi erano la norma. In famiglia non avevamo mai posseduto un’automobile.
L’inverno: tra tormente e giochi
Ricordo ancora le tormente di neve che formavano cumuli alti più di due metri, bloccando l’uscita di casa, il cortile, le strade, ogni cosa. Eppure, la neve era anche gioco: immancabili erano le battaglie e i salti nella neve fresca, il suo scricchiolio sotto gli scarponi, il vento gelido che sembrava fendere la pelle del viso, la sciarpa di lana stretta intorno a naso e bocca, il cappello e gli indumenti pesanti che mi proteggevano dal freddo. Ma chi sentiva davvero il freddo? I giochi sul ruscello ghiacciato, le scivolate con la slitta o con gli sci sulle colline erano esperienze quasi quotidiane.
Gli sci li aveva fatti mio padre con assi di legno di qualità, intagliando i canalini sotto con precisione e usando strisce di vera pelle per fissare gli scarponi. Ricordo ancora come passava serate intere nel piccolo laboratorio dietro casa, con l’odore del legno appena tagliato che riempiva l’aria, mentre lavorava pazientemente con gli strumenti che aveva costruito da sé. Era un vero maestro artigiano, e ogni dettaglio era curato con amore e dedizione. Mio padre era molto bravo, sapeva fare e sistemare di tutto – una competenza essenziale in tempi così duri. E quanto ci siamo divertiti! Non importava il freddo o la fatica: si andava a scuola comunque, con la neve alta e il vento gelido, perché la vita della valle non si fermava. Prima di noi, al mattino presto, gli adulti salivano per andare al lavoro, e lasciavano nella neve un passaggio stretto, una traccia che rendeva più agevole il nostro cammino.
Le mattine erano freddissime, e ancora oggi sento nelle narici quell’aria tagliente ma straordinariamente limpida, il profumo della neve appena caduta. Bello, molto bello. Come dimenticare i nostri lunghi inverni, quando la neve restava per mesi, cominciando a nevicare già alla fine di ottobre e resistendo fino a marzo, quando, finalmente, il bianco cedeva e si intravedevano i primi fili d’erba verde.
I nonni e il calore della famiglia
Ogni giorno, passare davanti alla casa dei miei nonni paterni era una piccola festa, un rinnovarsi di gioie familiari. Al ritorno dalla scuola, a pochi metri da casa, sulla sinistra, c’era la loro abitazione. Mi aspettavano al cancello aperto, chiamandomi: “Vieni, Nelu, entra!”. Mi chiedevano della scuola, cosa avevo imparato di nuovo, volevano vedere i miei disegni, e io avevo sempre qualche disegno per loro. Quando faceva freddo, ci rifugiavamo in casa, al calore della stufa a legna. Ricordo il profumo delle patate cotte al forno, del pane nero e delle noci – un’autentica delizia. E la tazza di tè bollente con limone che non mancava mai. Era una vera goduria, un piacere semplice e indimenticabile.
Spesso, prima di ripartire verso casa, mio nonno mi portava con sé per salutare i suoi amici. Attraversavamo il grande giardino fino al ruscello, dove mio nonno aveva una piccola casetta che ospitava l’alambicco più grande della valle, per la distillazione della grappa. Le persone venivano lì, con le loro botti piene di vinacce, aspettando con pazienza il loro turno. Nell’aria si mescolavano l’odore del fumo di legna e il profumo delle vinacce fermentate – un odore che non dimenticherò mai. All’interno, l’atmosfera era quasi di festa, con la luce soffusa, il crepitio della legna sotto l’alambicco e il lento scendere della grappa dalle serpentine. Mio nonno era fiero di me, mi presentava a tutti, e quelle strette di mano e quei sorrisi erano per me momenti di orgoglio.
La ribellione e le avventure estive
Al ritorno, spesso mi fermavo al ruscello ghiacciato per giocare, scivolando sul ghiaccio con gli scarponi, nonostante fosse proibito dai miei genitori. Ma ero un po’ birichino, un po’ ribelle. Quante cadute, quanti pantaloni rotti all’altezza delle ginocchia, e quanti rimproveri da parte di mia madre, che preferiva non far sapere tutto a mio padre, perché lui si arrabbiava di più. Ma, malgrado tutto, queste erano le esperienze che rendevano unica la mia infanzia.
D’estate, tutto era più semplice, ma sempre bello. Pantaloncini corti, camicetta e la piccola borsa a tracolla: si andava a scuola in fretta, ma al ritorno ci si prendeva più tempo. Prima, una veloce fermata dai nonni, qualche giro nel giardino, tra gli alberi da frutta, assaggiando qualche mela ancora acerba. E, quando maturavano le prime mele bianche, dolci e farinose, era una festa. A volte, usavamo un lungo bastone per farle cadere dai rami più alti. Che bontà! Lungo il ruscello c’erano salici piangenti, con i rami che toccavano l’acqua, oche e anatre libere, e rane che saltavano quando mi avvicinavo. Era tutto così vivo e bello.
Il primo bacio e i ricordi della sorgente
Poi, il ponticello. Come dimenticarlo? Lì, quando avevo quasi sei anni, diedi il mio primo bacio a una ragazzina che tornava a casa con me. Un bacio innocente, ma indimenticabile. Chi non ricorda il primo bacio? E, qualche anno dopo, andavo spesso alla sorgente a prendere l’acqua con i secchi. Tutto aveva un suo motivo, ma questa è un’altra storia.
Conclusione
Sono stato fortunato, ho avuto un’infanzia serena. I miei genitori hanno fatto di tutto per proteggermi dalle difficoltà del loro tempo. Ho vissuto momenti bellissimi, esperienze che oggi, forse, troppi pochi bambini fanno e che, invece, avrebbero bisogno di vivere. Questo è solo il mio modesto parere.
Sì, il mondo è cambiato. Ho vissuto molti cambiamenti e speranze, e la mia vita ne è stata testimone in modo profondo. Leggi di più sui miei primi 32 anni di vita.
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