Le scuole elementari le ho frequentate nella parte alta della città, dove sembrava che il mondo si aprisse in una dimensione più vasta, come se il vento spazzasse via ogni limite e la luce del mattino accendesse nuove prospettive. Al suono della campanella, centinaia di bambini si radunavano nel cortile, un mosaico di divise e sorrisi, un inno al futuro che ci univa tutti in quella nuova uniformità. Ecco i miei ricordi di scuola elementare.
Il 1° giorno di Scuola
Il primo giorno di scuola è ancora vivido nella mia mente. Era un giorno di settembre e il grande cortile della scuola brulicava di bambini e dei loro genitori. Un caos vibrante e gioioso. Io ero emozionato, forse anche un po’ impaurito, mentre, mano nella mano con mia madre, mi avvicinavo alla scuola. Lei mi guardava con un sorriso rassicurante e mi diceva: “Vedrai, Nelu, vedrai, sarà tutto molto bello. Ti piacerà!”. Quel nome, Nelu, che mia madre mi aveva dato da piccolo, mi sarebbe rimasto attaccato per tutta la vita, quasi un’affettuosa carezza che mi accompagnava in ogni passo.
Ed eccoci arrivati alla Scuola Generale Nr. 4. Il cortile era un tripudio di colori e di attesa: bambini con dei fiori in mano, genitori emozionati e professori che si aggiravano tra la folla. Mia madre aveva avuto ragione: bastò vedere qualche volto amico, un sorriso familiare, e le mie emozioni si sciolsero, lasciando spazio alla curiosità. C’era qualcosa di magico in quella scena: le divise dei bambini, così perfette, ci rendevano tutti uguali e allo stesso tempo unici.
I ragazzi indossavano giacche e pantaloni scuri, camicie bianche, scarpe lucide e i capelli tagliati corti. Le bambine, con le loro uniformi a quadretti azzurri e bianchi, grembiulini azzurri e fiocchi bianchi tra i capelli, sembravano quasi delle piccole fate. Un’immagine di ordine e bellezza che mi è rimasta impressa. Eravamo tutti fieri di indossare quei vestiti nuovi, simbolo di un inizio, di una promessa. Eravamo uguali, modesti e contenti.
La cerimonia e l’Ingresso in classe
I più grandi erano già organizzati, allineati con i loro direttori di classe, mentre i genitori formavano una cornice attorno a questo quadro vivente. Noi, i più piccoli, eravamo ancora legati alle mani dei nostri genitori, in attesa di essere chiamati. La cerimonia iniziò con i discorsi del direttore e di alcuni professori. Poi i più grandi entrarono nelle loro aule, e le maestre iniziarono a leggere le liste dei nuovi studenti. Sentii il mio nome, e mi allineai con i miei nuovi compagni. Una nuova avventura aveva inizio.
La mia classe era la 1B. Un cartellino appeso sulla porta segnava l’inizio di qualcosa di importante. I banchi si riempivano piano piano: alcuni bambini erano accompagnati dai genitori, altri si sedevano da soli, ma alla fine tutto andò bene. C’erano lacrime, qualche capriccio, ma alla fine, il primo giorno di scuola finì con il sorriso di tutti. Era l’inizio di una nuova tappa della mia vita: quattro anni di scuola elementare, seguiti da altri quattro anni di scuola media. Un percorso scolastico obbligatorio, ma anche un viaggio ricco di scoperte e di gioia.
Le ore di calligrafia
Le elementari furono per me un periodo di crescita e di meraviglia. Tra tutte le lezioni, quelle di calligrafia occupano un posto speciale nei miei ricordi. Imparare a scrivere in corsivo era un’arte, un esercizio di pazienza e precisione. Ricordo ancora il profumo della carta dei nuovi quaderni di calligrafia, l’odore pungente dell’inchiostro nel calamaio, le prime esercitazioni, gli scarabocchi iniziali sui quaderni con le righe oblique. Era un lavoro ripetitivo, pagine e pagine di linee rette, tratti curvi, cerchi: un rituale che richiedeva dedizione e costanza.
C’era tutto un piccolo mondo legato alla calligrafia: i pennini di metallo, le cannule, la carta assorbente, il calamaio e persino la bustina con la polverina “PIC”, capace di cancellare le macchie d’inchiostro dalle dita e correggere gli errori sul quaderno. Tutto era ben custodito nel mio astuccio di legno, come se fossero tesori. Le mie dita diventavano blu alla fine di ogni lezione, segnate da quell’inchiostro che, nonostante tutto, rappresentava un simbolo di apprendimento.
Scrivere a mano era un’arte che amavo. Nonostante i dolori al braccio, al polso e alle dita, sentivo una grande soddisfazione nel vedere il risultato dei miei sforzi: le lettere belle, ordinate, armoniose sulla carta, e i voti di 9 e 10 scritti in rosso dalla maestra nell’angolo in alto della pagina. Tornavo a casa con orgoglio, mostrando ai miei genitori quei quaderni come fossero trofei. La calligrafia insegnava la disciplina, il rispetto delle regole, la costanza. Ancora oggi, scrivere a mano su un foglio di carta mi dà una sensazione di connessione, di concentrazione, come se tornassi per un attimo a quelle ore trascorse a imparare.
Le premiazioni di fine anno
E alla fine dell’anno, durante la festa per la chiusura dell’anno scolastico, i nostri sforzi venivano ricompensati: i migliori erano premiati in base ai voti e alla media generale. C’erano premi per il primo, secondo e terzo posto, oltre a menzioni d’onore. I premi consistevano quasi sempre in libri: libri di poesie, di letteratura, opere che ci incoraggiavano a continuare a crescere e a scoprire il mondo attraverso la lettura. In più, i più meritevoli ricevevano delle coroncine di fiori intrecciate su un bel rametto verde e diplomi di merito.
Eravamo così fieri di noi stessi, così felici quando venivamo chiamati per essere premiati durante quel grande raduno. Le feste di inizio e di fine anno scolastico erano sempre un evento solenne. Davanti a tutti i presenti – studenti di tutte le classi, genitori, professori, la direzione e tutti gli altri invitati – venivamo chiamati uno a uno vicino al tavolo del direttore della scuola, e ogni direttore di classe premiava i suoi studenti più meritevoli. In questo modo sono riuscito a riempire la mia piccola biblioteca con tanti nuovi e bellissimi libri.
Eravamo felici, e nei volti dei nostri genitori si leggeva una gioia sincera. Dopo la premiazione, tutti ci facevano i complimenti: i compagni, i loro genitori, i professori, e non solo a noi, ma anche ai nostri genitori. Ero soddisfatto dei miei risultati e, allo stesso tempo, contento di aver fatto felici e resi fieri i miei genitori. Il rispetto: che bella parola. Erano belle soddisfazioni, quelle, per ogni genitore, soddisfazioni che li aiutavano ad affrontare al meglio i problemi e le difficoltà di ogni giorno, che purtroppo non erano pochi in quei tempi.
Quello era il mio piccolo contributo alla felicità della mia famiglia. Per noi bambini, quei tempi non erano perfetti, ma erano belli. Riuscivamo a trovare la gioia in tutto, anche nelle cose che, a prima vista, potevano sembrare insignificanti. È vero, c’erano delle carenze, si facevano dei sacrifici, non avevamo le comodità di oggi, ma conoscevamo il valore di qualsiasi cosa, conoscevamo l’amore, il rispetto e l’uguaglianza tra le persone. Si saltava di gioia per un dolcetto, si era felici per un giro con una bicicletta usata; un pallone da calcio, anche solo di gomma, ci faceva dimenticare ogni altra cosa.
Non si stava bene come oggi, ma era bello. Soprattutto per me, era fondamentale rispettare il desiderio di mia adorata madre, che mi diceva sempre: “Nelu, non farci vergognare”. Un desiderio che, con amore, e riconoscenza, ho sempre rispettato per tutta la mia vita.
Le vacanze dai nonni materni
Le vacanze estive dai miei nonni materni erano il momento più atteso dell’anno, una vera e propria fuga dalla città verso un mondo semplice e autentico. Amavo profondamente quel villaggio, tanto che non c’era estate in cui non tornassi lì. Prendevamo il treno con la locomotiva a vapore, e ogni volta mi sembrava di partire per un’avventura straordinaria.
In quel piccolo villaggio nel Nord-Est della Romania, la vita scorreva seguendo il ritmo della natura: ci si alzava al canto del gallo e si lavorava nei campi all’alba. Tutto ciò che si mangiava veniva prodotto dai miei nonni, in un’economia del baratto che sembrava appartenere a un’altra epoca. Ogni giornata era un’avventura, fatta di lavoro nei campi, di giochi con i cugini, di feste tradizionali del villaggio. I miei nonni mi amavano profondamente, e io li amavo con la stessa intensità; il loro affetto era come una coperta calda nelle mattine fredde di campagna.
Quelle estati erano una parentesi di felicità pura, momenti che porterò sempre nel cuore, insieme al profumo del fieno appena tagliato e al sapore del latte fresco. Tornare in città era sempre difficile, ma quei mesi estivi rimangono tra i ricordi più belli della mia infanzia.
La scoperta delle tradizioni e costumi di Natale e Capodanno
Durante la mia infanzia, le Tradizioni d’Inverno rappresentavano una finestra aperta su un mondo antico e affascinante. Quelle tradizioni, quei costumi del popolo Romeno avevano radici profonde, provenivano da tempi remoti, quando la vita era regolata dai cicli della natura e dal ritmo delle stagioni. Prima ancora dell’arrivo del cristianesimo, le popolazioni dell’antica Dacia celebravano usanze che si tramandavano di generazione in generazione, e che ancora vivevano nei gesti e nei riti delle nostre feste.
Dicembre era il mese dell’attesa, quando ci preparavamo per le celebrazioni Natalizie e di Capodanno. Alla Vigilia di Natale si facevano gli auguri. Andavamo in gruppi di bambini e bambine, sfidando il freddo e la neve, bussando alle porte di amici, vicini, parenti. In cambio, ricevevamo dolci, mele, noci, biscotti fatti in casa, e talvolta qualche moneta. Tornare a casa con le borse piene era un’emozione indimenticabile, così come la sorpresa di trovare l’albero addobbato, preparato mentre non c’ero.
All’epoca, l’albero di Natale si addobbava la sera della Vigilia, non giorni o settimane prima come accade oggi. Con il tempo, il valore di quelle tradizioni divenne per me un impegno morale: preservarle, tramandarle, per onorare le generazioni passate e mantenere viva la nostra identità culturale. Ancora oggi, queste tradizioni mi emozionano, e sapere che sono ancora rispettate in alcune comunità mi riempie di speranza.
Conclusioni
Ho avuto un’infanzia meravigliosa, che purtroppo è volata via troppo in fretta. Le scuole elementari, i miei primi quattro anni di scuola, sono stati come un sogno: un sogno di ordine e scoperta, di piccoli sacrifici e grandi soddisfazioni, di uniformi nuove e sorrisi sinceri, di amore, di rispetto e di gioia. Un sogno che, nonostante tutto, custodisco ancora oggi, con gratitudine e nostalgia.
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